Un tempo avanti e dopo coronavirus

È il momento di drizzare le orecchie e ascoltare, tra il dolore e le lacrime, cosa ci sta insegnando la storia di questi giorni. La riflessione di don Domenico Panico

 


a cura di don Domenico Panico

vicario episcopale per gli affari economici e amministrativi

parroco a San Francesco d'Assisi, contrada ai Romani, Sant'Anastasia

"Pensavamo fossero traversie e, infatti, erano opportunità" (G.B. Vico)


Contare non solo i danni ma anche le urgenze...Cosa cambierà nella nostra quotidianità alla fine del contagio? Forse nulla. Ma non è affatto scontato che il domani sarà come prima. Anche la clausura forzata produce danni, non sempre immediatamente quantificabili. Siamo sicuri che l'abitudine alle necessarie precauzioni e ad atteggiamenti difensivistici – mascherine, guanti, disinfettanti, distanze... - non si traduca anche in diffidenza verso il prossimo?

Forse, il difficile sul piano emotivo e comportamentale ancora non è venuto, ma verrà senz'altro. E, quando verrà, dovremo trovare nuove ragioni per accorciare le distanze e non consentire al sospetto di scrivere le nuove regole della convivenza. Finora, ci è toccato solo avere tanta pazienza per assoggettarci a prescrizioni che sovvertono la nostra quotidianità, fatta di lavoro e impegni in famiglia ma anche di piccoli riti e abitudini, dal caffè mattutino al bar con gli amici all'aperitivo prima del rientro serale per cena. Poca cosa, però, rispetto all'impegno di coloro sui quali è ricaduto gran parte del peso della pandemia. Da quelli che hanno dovuto fronteggiare l'emergenza senza averne i mezzi a quelli che l'hanno fronteggiata pagando con la vita, c'è nel mezzo tutto un ampio spettro di responsabilità non direttamente nostre. Studiare il virus, comprenderne le caratteristiche e le  mutazioni, scegliere i farmaci e le terapie più mirate e verificarne gli effetti, studiarne di più efficaci, subire l'affronto della morte dei propri pazienti e dei propri colleghi, fornire indicazioni utili a evitare il contagio..., tutte queste cose hanno visto altri protagonisti, più direttamente impegnati sul campo di battaglia. Unico tratto, dolorosamente comune, la malasorte di non poter dare l'ultimo saluto e un abbraccio ai cari defunti e, talvolta, anzi, non sapere nemmeno di cosa fossero morti: la pandemia ha messo tutti nello stesso ripugnante calderone, su autocarri militari in direzione del primo crematoio disponibile. Per il resto, quella di tutti noi è stata solo una sorta di guerriglia sulle barricate, lontani dalle trincee dove la guerra divampava sul serio, senza risparmiare nessuno. Noi altri abbiamo offerto, insomma, una collaborazione, per così dire, indiretta, e, tuttavia, non meno preziosa e faticosa. Con la differenza, però, che a sera noi potevamo dire di aver compiuto il nostro dovere pur senza aver fatto alcunché di eroico, mentre per "quegli" altri, non era mai così: prima di riposare meritatamente, essi dovevano comunque lavorare ancora per stilare una lista di successi e di sconfitte, quest'ultime, spesso, più numerose dei primi, e poi pensare alle strategie del domani per escogitare migliori strategie per combattere la malattia, elmetto in testa, nella stessa trincea infettata del giorno prima... Differenza, dunque, non da poco.

Per nessuno, ovviamente, è stato semplice adattarsi alle restrizioni delle proprie libertà,  individuali e collettive, compresa quella di culto, ma è stato, comunque, un impegno minore, in subordine, di retroguardia, più sopportabile, benché non sempre comprensibile. Dopo, invece, a contagio finito, ci sarà molto da fare per tutti, compresi "quegli" altri che già hanno dato fino allo sfinimento contro il virus e dovranno, però, ancora confrontarsi con l'ordinario, passato, nel frattempo, in secondo piano, ma non più indifferibile. Domani, dunque... Domani, saremo tutti protagonisti. Nessuno escluso. E su tutti, su chi è stato in trincea e ancora lo sarà, su chi ne è fuori, su chi è in cabina di regia a prendere decisioni difficili e rischiose (se decidi una cosa ne soffre l'economia, se ne decidi un'altra ne soffre la libertà, se ne decidi una terza ne soffre la salute pubblica...), cadrà l'onere di comportamenti virtuosi atti a evitare che una mina, nascosta nel campo, ci scoppi tra i piedi. Cos'è, in fondo, questo virus se non la rappresentazione stessa del male che entra da dove vuole, si annida dovunque vuole e, si nasconde subdolamente, in attesa di compiere il proprio tragico dovere di provocare danni? Questo virus è come il "da chi meno te l'aspetti" di tante situazioni già vissute: ne siamo e, forse, ne saremo ancora per parecchio tempo, potenziali portatori e, ciascuno di noi potrebbe sentirsi dire: "sono stato infettato da chi meno me lo sarei aspettato". Portatori sani, per fortuna, ma non per questo meno pericolosi.

Perciò, domani, terminato il tempo della sola obbedienza, comincerà quello più impegnativo  della responsabilità perché la vigilanza non si tramuti in diffidenza e la diffidenza in sospetto e il sospetto in chiusura. Ci vorrà, insomma, ancora tanta pazienza. E tanto spirito di discernimento. Il tempo della ripresa non sarà indolore, proprio come non lo è stato quello della pandemia, che ha colpito a tradimento, senza lasciarsi guardare in volto, senza farci capire da dove veniva il pericolo (È qui? È la? E prima di annidarsi nei polmoni dove si ferma? Sulle mani, sulle superfici degli oggetti del nostro quotidiano, sulle scarpe, sugli abiti, nell'aria? Forse, in nessuna di queste parti, o, forse, addirittura, in tutte, per cui è meglio essere prudenti, lavarsi le mani il più spesso possibile, vestirsi come marziani, stare a distanza). Il tempo della ripresa sarà, infatti, anche il tempo della correzione fraterna, quella senza arroganza, ma ferma e sincera. Sarà il tempo in cui, senza eccessi e ossessioni, bisognerà essere cauti e, al tempo stesso, sereni, fiduciosi ma attenti. La pandemia ci ha condotti a un bivio dal quale, forse, si comincerà anche a contare il tempo non più sulle coordinate avanti e dopo Cristo, ma anche su quelle, meno gradevoli, ma comunque significative, dell'avanti e dopo coronavirus. Un modo, forse, per non dimenticare. Gli stessi errori, ripetuti due volte, potrebbero essere fatali.

Non sarà, allora, fuori luogo capire se in questa pandemia c'è anche un messaggio da decifrare per farci ripensare ai tanti errori commessi ante coronavirus, che non ci hanno consentito di aggredire la crisi sanitaria più tempestivamente ma, in definitiva, per capire meglio e in maniera inedita il modo stesso di dover stare al mondo da parte di noi umani. Troppo spesso, l'homo sapiens si è dimostrato insipiens e non gli sono stati sufficienti neppure i grossi shock della storia per comprendere i propri errori. Nemmeno gli ultimi tragici conflitti mondiali ci hanno fatto capire granché se è vero che le armi crepitano ancora in più parti del pianeta. È il caso, dunque, di drizzare le orecchie e ascoltare, tra il dolore e le lacrime, cosa ci sta insegnando la storia di questi giorni. Se, con il lockdown, la natura riconquista spazi vitali, in fondo, si riprende ciò che è suo e che noi le abbiamo sottratto; se, il minor consumo di risorse fossili rende l'aria più respirabile, significa che essere pura e respirabile è la sua natura. Sarà proprio questo il momento propizio per una svolta più ecologicamente umana? La pandemia ci fa ripensare che il modo di stare nella vita è stato troppo spesso egoistico, vorace, onnivoro e distruttivo. Troppo spesso abbiamo rubato e sottratto alla natura e al prossimo ciò che non era nostro.

Buon senso, allora, suggerirebbe d'individuare, fin da ora, le urgenze del dopo coronavirus. Non può essere sempre la storia a presentarci il conto perché, prima o poi, di crisi in crisi, potrebbe essere troppo tardi per cambiare sul serio direzione e la natura potrebbe aver esaurito la propria pazienza. Se qualcuno ha sostenuto che l'impegno per la ripresa dev'essere lo stesso del dopoguerra, vorrà pur dire qualcosa e, cioè, che, probabilmente, le  ferite della pandemia sono anche più profonde di quelle già visibili, per cui la stessa partita della ripresa non si potrà giocare in campo neutro o a porte chiuse. Non c'è uno scudetto da vincere ma tanto da eliminare, c'è tanto da salvaguardare ma anche tanto da riprogettare e riprogrammare. Le guerre non si vincono mai sul solo piano delle riforme se queste non sono capaci anche di creare abitudini virtuose. Le guerre si vincono, soprattutto, sul terreno dei valori che ispirano e guidano le riforme per dare a tutti coordinate più sicure e punti di riferimento più stabili e sicuri a quel volontariato generoso e all'abnegazione nel compiere il proprio dovere. Che, per definizione, si contrappongono all'idea del "si salvi chi può" e che rappresentano proprio i valori di cui ha bisogno un vivere veramente equo e solidale. L'uomo è fatto per il vivere in comunità, dove non è mai utile pensare al singolare e redigere ciascuno il proprio cahier de doleances ma dove, viceversa, è necessario un serio esercizio di fraternità, altrimenti "uniti si vince" e "distanti ma non distinti" resterebbero solo slogan per esorcizzare la paura.

Oggi, più che mai, è necessario restituire alla vita quel qualcosa in più che, spesso, abbiamo preso arbitrariamente, con sotterfugi e furbizie d'ogni specie. Non si può solo prendere o pretendere ma
si deve anche dare. "Dare, voce del verbo amare", diceva Tonino Bello. Domani... Domani comincia, dunque, il tempo della corresponsabilità e del discernimento, che sono un passo in avanti rispetto alla sola  obbedienza "difensiva". Per orientarci, abbiamo, certamente, bisogno di una politica che decida e non sia litigiosa, e di un governo che governi senza opprimere. Ma abbiamo anche bisogno di capire che i tagli alla santità non sono meno deleteri di quelli alla sanità. "Signore, dammi, dunque, la forza di cambiare le cose che si possono cambiare. Dammi il coraggio di accettare le cose che non si possono cambiare. Dammi il buon senso di distinguere le prime dalle seconde". 


 




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