Don Riboldi aiutò i giovani a rialzare la testa

Il giornalista Ettore De Lorenzo a vent’anni prese parte alla storica marcia anticamorra organizzata a Ottaviano, dall’allora vescovo di Acerra: «Fu un profeta. Triste non vedere giovani in chiesa il giorno delle sue esequie»

Erano anni in cui si sparava ininterrottamente per le strade della Campania: gli omicidi erano all’ordine del giorno. E c’era un clan, la Nco di Raffaele Cutolo, che dominava la scena del crimine organizzato a suon di omicidi. In quegli anni Antonio Riboldi era vescovo di Acerra. Decise di fare qualcosa, e decise che per farlo c’era bisogno dei giovani. Andò nelle scuole, si cominciò a parlare di mafia.

Un movimento che ebbe culmine nella storica marcia che coinvolse migliaia di giovani da Somma Vesuviana a Ottaviano, la città di Cutolo. Tra quei giovani c’era Ettore De Lorenzo, giornalista Rai, all’epoca studente in un liceo scientifico di Portici. Da anni gira le scuole della regione per parlare di mafia, memore di quegli anni in cui la gioventù campana decise di dare una scossa all’intera società. Ha ripercorso quegli anni in un libro, «Quando avevo vent’anni».

È corretto dire che don Riboldi guidò riscossa della gioventù campana contro il crimine organizzato?

Sì. All’epoca si parlava di camorra a bassa voce, anche se i morti per strada li vedevano tutti. Sembrava che dovessimo rassegnarci ad accettarlo. Don Riboldiriempì un vuoto. Era lui il nostro punto di riferimento. Come ha ben detto il suo successore Di Donna nell’omelia dei funerali (un momento in foto), fu un profeta che insegnò a un popolo come rialzare la testa.

Come reagì la società campana?

Noi lo seguimmo. Ma non bisogna dimenticare, ora che assistiamo alla celebrazione delle sue virtù, che ci fu chi lo considerò un pazzo. Portava la Chiesa su un terreno scivoloso. C’era ancora, nella Chiesa e nella società, un clima di omertà nei confronti del fenomeno mafioso, quando non si trattava proprio di connivenza. Nemmeno le istituzioni erano pronte ad affrontare il problema. Non c’erano le leggi di cui disponiamo oggi, non c’era una procura nazionale Antimafia. Don Riboldi seppe capire prima di tutti cosa fare e come farlo.

Cosa ricorda di quella storica marcia nel paese di Raffaele Cutolo?

Fu un giorno memorabile, che ha nella mia memoria la faccia e l’entusiasmo di tutti quei giovani. Me lo lasci dire: fu un vero calcio nel sedere a chi voleva fare della Campania solo un terreno per speculazioni e violenze. Fu la prima pietra per una presa di coscienza collettiva nella lotta al crimine organizzato.

Quando Cutolo, ormai costretto in carcere, ha deciso di confessarsi, ha chiesto di un solo sacerdote: don Riboldi. Perché?

Don Riboldi si è guadagnato il rispetto di Cutolo, e lo ha fatto proprio combattendolo. Probabilmente il boss ha cercato lui perché proprio lui lo aveva sgamato e contrastato, e ha riconosciuto in quel prete l’unico che poteva salvarlo. Questa è la spiegazione che mi do.

Cosa ha lasciato don Riboldi alle nuove generazioni?

Questo è il punto più dolente. A me ha davvero fatto male non vedere i giovani ai funerali nella cattedrale di Acerra. Oggi manca, nella lotta al crimine, quel clima comunitario che don Riboldi contribuì a creare. C’è un maggiore individualismo, noi potemmo essere forti proprio perché uniti.

 

Il pezzo è stato pubblicato su inDialogo, Dorso di Avvenire, dicembre 2017, p.3

 

 

 

 




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