Impariamo a usare il vocabolario di Dio

Perché si ha paura di usare le parole che esprimono la propria fede? L'ultimo contributo di don Nicola De Sena per la rubrica di inDialogo dedicata ai giovani

Ho notato, con mia viva sorpresa, un difetto interessante su whatsapp: molte parole «sacre» o che rimandano comunque alla religione non le riconosce. Tante volte vengono modificate e, non accorgendomi del cambio, rovina i miei piccoli sermoni che ogni tanto invio. Qualifico questa anomalia come interessante perché mi ha fatto molto riflettere e, ovviamente, allertare ogni qualvolta debba scrivere un pensiero che sa di religioso.

E riflettendo. Quando usciamo con amici «non parrocchiali», anche se siamo giovani che si definiscono «credenti» abbiamo paura di usare un vocabolario cristiano e ci conformiamo al modo di esprimersi degli altri. È un dato di fatto che il nostro linguaggio lo auto–censuriamo nel cenacolo della nostra paura di essere derisi, magari definiti «ubriachi» di bigottismo (At 2,13). Ma, non deve scoraggiarci questo atteggiamento, è semplicemente la malattia dell’ «apostolo abbandonato», cioè di colui che percepisce la paura della lontananza di Dio e un po’ si vergogna della sua appartenenza alla Chiesa.

Oggi viviamo una fase di «ricorso storico», in cui le nostre comunità vivono la malattia pre-pentecoste, consapevoli di essere figli della risurrezione, timorosi di voler annunciare questa Grande Bellezza al mondo. In questo modo cancelliamo, come whatsapp, il nostro lessico di appartenenza e ci conformiamo all’andazzo generale, cioè del «nulla cosmico» (termine personalmente inventato per indicare la nuova religione).

Siamo sicuri che nel nostro linguaggio non ci sia comunque un «senso sacro» delle espressioni e, inconsapevolmente, annunciamo il vangelo senza mai nominarlo?

Tante volte pronunciamo la parola «Grazie». Questa espressione comune, indicante la più bella formula di cortesia e gentilezza e, devo dire, poco usata, esprime in sé un profondo legame con il sacro; essa è legata direttamente alla vita di Dio. Ringraziare, infatti, è tipico di colui o colei che ricevono qualcosa di cui è mancante, instaurando una comunione intensa tra il ricevente e il donatore. «Grazie» è il segno dell’accoglienza profonda, della disponibilità ad aprirsi totalmente al dono, senza giudicarlo o vagliare la possibilità di accettarlo o meno. Ebbene, il nostro «Grazie» è una delle parole più importanti della «grammatica della Trinità»; Dio è in sé comunione d’amore e la nostra espressione umana di gratitudine coglie l’essenza misteriosa e profonda del nostro Dio, che ama ed è amato, genera e salva. Questa vita, la nostra esistenza fatta di studio, di lavoro, di amicizie reali e virtuali, di incontri amicali, possiamo renderla, con le parole di san Paolo, una vita nello Spirito, usando il nostro linguaggio umano e trend, ma restando ancorati alla dimensione evangelica del nostro esistere.

Perché vergognarsi di parlare il vocabolario di Dio? Siamo comunque la comunità della Pentecoste!*

 

*Il contributo è stato pubblicato su inDialogo di Maggio 2018

 

 




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