Sempre più periferia. Viaggio in Diocesi

Pubblichiamo le interviste all'architetto Guido Grosso e alla sociologa Loredana Meo con le quali abbiamo aperto la prima parte del servizio sui decanati diocesani alla luce del concetto di 'periferia'. Il 28 luglio uscirà la seconda parte dell'indagine.

 

Pubblichiamo le interviste all'architetto Guido Grosso e alla sociologa Loredana Meo con le quali abbiamo aperto, sul numero di giugno di inDialogo, la prima parte del servizio sui decanati diocesani alla luce del concetto di 'periferia'. Il 28 luglio uscirà la seconda parte dell'indagine.

 

Guido Grosso, architetto: «Serve un serio intervento di rammendo per evitare il sorgere di isole territoriali» 

Il concetto di periferia si è evoluto. Per il territorio diocesano si direbbe che è possibile usare il termine periferia per interi contesti abitativi comunali.  All’architetto Guido Grosso, raggiunto telefonicamente, abbiamo chiesto i motivi di questo cambiamento del concetto. Grosso ha alle spalle una lunga carriera, si occupa di piani urbanistici e ha collaborato anche con il commissario straordinario di governo per la ricostruzione post terremoto dell’80.

Architetto, cosa ha causato l’involuzione del concetto di periferia? L’architettura vi ha contribuito? L’architettura ha avuto un ruolo complementare. Non è la causa principale del fenomeno. Il problema non è tanto connesso all’aspetto estetico, quanto a quello funzionale che riguarda l’assenza dei servizi e il ruolo dei quartieri periferici all’interno del contesto urbano. Quali sono i tratti distintivi dell’architettura delle periferie diocesane? Io distinguerei tra l’area nolana e il resto. Nel nolano quando si parla di periferia si pensa all’edilizia pubblica e popolare, cioè alla Gescal, costituita da fabbricati omogenei che creano spazi anonimi e indifferenziati. Tutto è stato fatto in modo abbastanza distratto e tutto è uguale e povero di concettualità. Ma in altre aree periferiche della diocesi la situazione cambia perché la genesi di questi quartieri è diversa. La Gescal ospita residenti originari della zona, altrove non è così. I residenti sono stati trapiantati qui da Napoli. E in questi nuovi rioni popolari si è creato un disastro sociale perché gli abitanti hanno ottenuto solo un alloggio in un contesto a loro ignoto e privo di servizi. Sul piano architettonico, se prendiamo l’esempio di Pontecitra, le nuove costruzioni si sono venute a creare attorno a una mega corte, disposta in modo disomogeneo rispetto alle realizzazioni precedenti. Ciò ha creato una frattura nella frattura che ha causato degrado e mancata manutenzione. Come si potrebbe migliorare l’aspetto delle periferie diocesane? Per dirla alla Renzo Piano, servirebbe una politica di rammendo. Le periferie andrebbero rammendate dal punto di vista dei servizi intervenendo per generare flussi importanti di scambi e creare relazioni nuove volte a stabilire un primo dialogo con il territorio. Se non si agisce così, questi spazi saranno condannati ad essere isole. (a cura di Mariano Messinese)  

 

Loredana Meo, sociologa: «Nei nostri territori mancano generalmente nette divisioni tra centro e periferia almeno dal punto di vista dell’offerta dei servizi per una buona qualità della vita»

Una città vive se ci sono relazioni. Sono le persone a fare le città e non viceversa. E in una città non dovrebbero esserci differenze tra le persone, ognuna delle quali dovrebbe essere trattata con pari dignità. Eppure i termini «centro» e «periferia» vengono solitamente utilizzati per indicare luoghi in cui risiedono «determinate persone», spesso i buoni, al centro, gli altri in periferia. Cliché e generalizzazioni che ostacolano e non poco il lavoro di chi – in particolare le associazioni – operano il bene anche lì dove la mentalità comune ritiene non ce ne sia. Loredana Meo, sociologa e presidente dell’associazione di promozione sociale Maya, ha un parere ben preciso sulla questione: «Nei nostri territori – dice al telefono – mancano generalmente nette divisioni tra centro e periferia almeno ad punto di vista dell’offerta dei servizi necessari a garantire una buona qualità della vita. Pensiamo ad esempio all’assenza di strutture e realtà che possano aiutare i genitori durante la pausa scolastica estiva: se non ci fossero le parrocchie con i loro campi estivi, molte famiglie avrebbero altre spese da affrontare». Un’arretrattezza generalizzata dunque in cui si inseriscono i migranti? Il fenomeno migratorio ancora non ha inciso in maniera forte nei nostri territorio salvo casi singoli come Palma Campania e San Giuseppe Vesuviano. Nel primo caso la comunità bengalese abita prevalentemente il centro mentre gli autoctoni si sono trasferiti in periferia. A San Giuseppe Vesuviano si è invece verificata un’inversione nei rapporti lavorativi dato che è la comunità cinese a dare lavoro agli italiani. Ma non possiamo parlare di integrazione. No, la presenza di nuove culture, di persone provenienti da altri Paesi, ha portato, secondo il mio parere, ad un mutamento del processo di ghettizzazione. Gli italiani del territorio, a mio parere, hanno reagito alle nuove presenze, coalizzandosi. L’apparente coesione sociale fra italiani non è dovuta ad una nostra crescita culturale ma a diffidenza verso lo straniero. Possiamo parlare di periferia diffusa? Possiamo parlare di un diffuso tratto dell’isolamento e della scarsa qualità della vita. Caratteristiche soprattutto dei comuni della nostra diocesi con il maggior numero di abitanti e maggiore estensione che non sono riusciti, a mio avviso, a compire un sereno passaggio dalla dimensione di paese a quella di città. Un’inversione di rotta potrebbe venire solo da scelte politiche in grado di rendere protagoniste le diverse sacche di isolamento. (a cura di Mariangela Parisi)

 

     

 

 




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