Prete per terre lontane

Lo scorso 21 settembre, padre Antonio Perretta, prete della Comunità missionaria di Villaregia, ha festeggiato venticinque anni di sacerdozio: una vocazione nata a sei anni

Padre Antonio Perretta è un prete della Comunità missionaria di Villareggia, originario della parrocchia diocesana dei Santi Germano e Martino di Scisciano. Classe 1972, giovanissimo scopre la sua vocazione al sacerdozio e all’impegno missionario. Da qualche anno si trova in Mozambico ed ha assunto la direzione nazionale della pastorale carceraria. Il 21 settembre ha reso grazie al Signore per i venticinque anni di sacerdozio.

Padre Perretta, com’è nata la sua vocazione? E perché partire ed andare lontano?

Il mio cammino vocazionale è iniziato quando ero molto piccolo, quando avevo 6 anni, nella parrocchia di San Martino c’era padre Mariano ed ero affascinato dall’idea di essere come lui, di essere un sacerdote, ed ho sempre detto fin da piccolo di voler essere padre. Poi a 17 anni, quando ero nel pieno della mia ricerca vocazionale ho conosciuto i missionari della Comunità missionaria di Villareggia che facevano la prima settimana missionaria a San Vitaliano ed erano appena arrivati in diocesi. Mi sono sentito estremamente bene ed accolto dall’equipe che si trovava in quella parrocchia e mi è venuta la curiosità di conoscerli di più. Così ho iniziato a conoscerli. Dopo il diploma, mi sono trovato di fronte alla scelta se continuare gli studi filosofici come avrei voluto o se rispondere subito alla chiamata del Signore che in me era già chiara. Facendo discernimento con il mio padre spirituale ho iniziato la facoltà di Teologia e sono entrato in Comunità. Inoltre, ho sempre avuto l’idea di partire e mettermi al servizio dei più bisognosi, delle chiese più povere, dove mancano le figure di religiosi, e delle persone che soffrono della mancanza di tanti beni materiali.

Oggi, lei è al servizio delle povertà delle carceri.

Ho scoperto il mondo del carcere venti anni fa, appena arrivato in Costa D’avorio. Sono andato in un carcere con un altro padre e per me quell’incontro è stato agghiacciante, mi ha sconvolto profondamente: più di 5000 persone in un carcere fatto per 2000/2500 detenuti, e attualmente in quel carcere ce ne sono 9000; mancanza di cibo, di spazio, di dignità. Da quel momento in poi i carcerati si sono infissi come una freccia nel mio cuore e pian piano è nata la pastorale carceraria. Parlo di Dio stando in mezzo ai carcerati, interessandomi ai loro problemi, cercando di ascoltarli, portando qualcosa da mangiare, portando sapone: si crea così quella simpatia umana che apre al Vangelo.

Quale tema o nota missionaria vissuta in terra lontana oggi potrebbe essere trasferita nelle parrocchie locali?

La nostra Chiesa europea dovrebbe interessarsi in modo diverso ai laici. In Mozambico ogni cappella ha il suo responsabile laico. Anche se non c’è sempre un sacerdote, è presente un ministro della Parola che ogni domenica celebra la Parola. Noi viviamo quest’esperienza che è arricchente per tutti. Credo che questo sarà il futuro per le tante parrocchie in Europa.


Riguardo ai giovani: perché è così difficile incontrarli. Nelle parrocchie locali sono sempre meno.

La sfida di trasmettere il messaggio di Cristo ai giovani è grande in qualsiasi latitudine perché essere giovani è una tappa bellissima ma anche estremamente difficile. I nostri giovani hanno bisogno di incontrare un Cristo nudo e crudo che ci impegna. Sempre più mi chiedo se per i nostri giovani in Italia e nel contesto occidentale, non sarebbe più efficace il contatto diretto con la pratica del fare il bene, dovunque è possibile, con i poveri, nelle carceri e negli ospedali, con i barboni, per far fare loro esperienza di incontro con il volto sofferente di Cristo.





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