La felicità e l'arte del discernimento

La riflessione del biblista don Fernando Russo in occasione della Giornata internazionale della felicità

Si celebra oggi, 20 marzo 2024, la Giornata internazionale della felicità, istituita dall'Onu nel 2012. Don Fernando Russo, biblista e parroco a San Paolo Bel Sito (Na) offre per l'occasione ai lettori di inDialogo una riflessione sulla felicità alla luce della Sacra Scrittura.

Che cos'è la felicità? La riflessione del biblista don Fernando Russo

Cos’è dunque la felicità? Quando si parla di felicità si rischia di cadere nella banalità dei luoghi comuni. Così, dunque, secondo un comune modo di pensare, la persona felice sarebbe colei che è lontana dai problemi. Oppure, felice sarebbe chi è in grado di godere di un certo benessere. Benessere connesso con una certa indipendenza economica. Felice sarebbe chi, poi, è in grado di vivere a pieno la propria libertà, andando dove gli pare e facendo ciò che gli pare. Quest’ultimo aspetto vedrebbe protagonisti soprattutto gli adolescenti, sempre in lotta con le “briglie” imposte loro dai genitori. Verrebbe anche da aggiungere che, proprio in virtù di una visione “adolescenziale” della vita, c’è chi vorrebbe essere felice in un mondo senza regole, senza tasse, senza preoccupazioni. Poi, ci sono quelli che per felicità intendono l’avere realizzato i proprio obiettivi oppure l’avere trovato una persona giusta con cui condividere l’intera vita oppure l’avere trovato l’amico o l’amica dei sogni, sempre pronto o pronta a portare soccorso nei momenti di difficoltà. Tutti questi “luoghi comuni” possiedono un fattore comune, per il quale la felicità è una sensazione di benessere.

Ma cos’è davvero la felicità? Vediamo cosa dice la Scrittura. Il termine in ebraico è ʼaśrê, mentre in greco è makários. A parte la stragrande ricorrenza del primo termine nei salmi, è emblematico come l’aggettivo ricorra ad esempio in due brani identici, riportati da due differenti libri dell’Antico Testamento, relativi al viaggio che la Regina di Saba compie, per verificare la sapienza di Salomone.

In 1 Re 10,8 la regina, dunque, dopo avere fatto esperienza della sapienza di Salomone, esclama: “Beati (μακάριαι /ʼaśrê ) i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza”. Interessante è l’ultima sequenza del versetto, nella lingua ebraica. La regina di Saba esclamerebbe, letteralmente, “per imparare/apprendere la tua sapienza (ḥǒkmāh). Cosa si intende qui per sapienza? E perché coloro che stanno davanti a Salomone e apprendono/imparano/fanno tesoro della sua sapienza dovrebbero essere felici?

In 1 Re 3,9, Salomone, giovane e inesperto re, dinanzi alla domanda di Dio, che vuole concedergli tutto ciò che desidera, domanda: “Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso?”. Il “cuore docile”, in ebraico sarebbe lēḇ ṧōmeah (un cuore che ascolta) per rendere giustizia…al tuo popolo e sappia discernere/ləhāḇîn tra il bene e il male. Non è un caso che il verbo “discernere” in ebraico sia connesso all’attività dell’intelligenza e della comprensione. La sapienza, dunque, è capacità di discernimento, nonché applicazione alla comprensione della realtà con i suoi meccanismi complessi, non sempre palesi. La consapevolezza è l’arma vincente, per potere operare il bene. Infatti, Salomone cerca l’applicazione dell’intelligenza al discernimento tra bene e male, per potere essere di utilità al suo popolo. Egli sa bene che, l’inesperienza, al contrario, potrebbe invece essere letale.

La Regina di Saba, dunque, intraprende il suo viaggio, per godere di questa dote acquisita e considera felici coloro che hanno la possibilità di goderne ogni giorno. Felice, dunque, è chi ha la possibilità nella vita di stare alla presenza di un maestro saggio, di fare tesoro della sua esperienza ed essere aiutato ad operare un giusto discernimento della realtà.

La traduzione greca, invece, dell’aggettivo “felice” è makàrios/beato. Nel testo di Mt 5,3-11 sono beati/felici tutti coloro che nel presente vivono una condizione considerata dal mondo non vantaggiosa. La prima beatitudine, infatti, è emblematica. Sono felici, infatti, i poveri in Spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (v.3), così come sono felici i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli (v.10). La prima e l’ultima beatitudine, dunque, prevedono una “ricompensa” proprio nel presente. Non ci sarebbe nessun vantaggio ad essere “poveri in Spirito”, né perseguitati per causa della giustizia. Anzi, nel secondo caso nessuno giudicherebbe felice uno cha ha dovuto affrontare il carcere da innocente. Eppure, la felicità nel presente è data proprio dal possesso del regno dei cieli. Il regno, che è una realtà terrena, connesso al genitivo “dei cieli” subisce nell’espressione generale tutta la speciale portata di senso che l’Evangelista intende dare. Non si tratterebbe, dunque, di una realtà materiale, ma di una realtà spirituale, dove tutto è diametralmente opposto alla mentalità corrente. Di conseguenza, la vera felicità è opposta alla ricerca del benessere materiale, perché è carica di speranza nel presente, anche in quelle situazioni complicate o difficili. L’effimera felicità che scaturisce dal “benessere materiale” svanisce con la sensazione stessa di benessere, che è passeggera. Chi si droga, ad esempio, si illude di essere felice, per quelle sensazioni che lo portano lontano dalla realtà, ma quando svanisce l’effetto, la realtà è più pesante di prima. Chi, invece, impara a stare nella realtà, accogliendone i limiti e crescendo nell’arte del discernimento, impara ad essere forte e ad incarnare nella propria persona lo stile del regno dei cieli.





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