Oggi la Chiesa celebra San Benedetto da Norcia, patrono d’Europa. È certamente una cosa legittima e opportuna approfittare di questa ricorrenza per ricordare le “radici cristiane” del nostro continente, che trova nella tradizione giudeo-cristiana una delle fonti principali della sua architettura culturale, etica e civile. Tuttavia, a mio avviso, bisogna rifuggire da un utilizzo talvolta strumentale di tale memoria, portato avanti proprio da alcune frange della comunità cristiana in polemica con la cultura laica (che certo a volte ha ricambiato le ostilità). Proviamo a volare un po’ più in alto degli opposti rivendicazionismi che inquinano il dibattito, soprattutto nel nostro tempo di fortissime polarizzazioni.
La cultura europea, nelle sue linee essenziali, è figlia di Atene, Gerusalemme e Roma. Queste tre fonti non hanno viaggiato in parallelo, ma ovviamente si sono mescolate generando forme inedite e impreviste. Quando, ad esempio, il Concilio di Nicea nel 325 d.C. usò il termine homoousios, che significa "della stessa sostanza" o "consustanziale", per esprimere la relazione tra il Figlio (Gesù Cristo) e il Padre (Dio), affermando in modo inequivocabile la divinità del primo contro Ario, utilizzò un termine della cultura laica, segnatamente della metafisica greca, modificandone però in modo creativo il significato. Nella metafisica greca non si sarebbe parlato di più soggetti (come il Padre e il Figlio) che condividono la stessa ousía, se non al prezzo di dissolvere le loro rispettive individualità. Invece, il cristianesimo afferma che il Padre e il Figlio sono due persone distinte (hypostáseis), ma condividono una sola ousía, una sola natura divina. Ecco un esempio - qui riportato in forma molto stringata - di come si muove la macchina della cultura, attraverso influenze, rimescolamenti, ibridazioni, di cui dovremmo sempre ricordarci.
La cultura europea si fonda su tre pilastri essenziali — Atene, Gerusalemme e Roma — e soprattutto su quella che il filosofo francese Rémi Brague, in un prezioso saggio di qualche anno fa intitolato Il futuro dell’Occidente, chiama “secondarietà”: la consapevolezza di essere eredi di una tradizione precedente, ma capaci di riceverla, rielaborarla e rilanciarla. Su questo aspetto ci si sofferma sempre poco. Secondo Brague, la grandezza dei Romani risiede nel riconoscersi secondi rispetto alla Grecia: non nell’apporto di qualcosa di nuovo, bensì nel custodire e trasmettere ciò che già esisteva. Egli spiega: «I Romani non hanno fatto che trasmettere, ma questo non è poco. Hanno accettato di porsi dopo i Greci, e dopo gli Ebrei. Si sono rassegnati a occupare soltanto il secondo posto, addirittura a svolgere un ruolo secondario; hanno accettato di farsi carico di ciò che qui chiamerò secondarietà». La cosa è illustrata magnificamente da un passo di Péguy: «Il soldato romano non ha fatto soltanto le lingue romane, e la terra commisurata alle lingue romane; non ha fatto soltanto i popoli romani (…) All’interno essi portavano il mondo greco. Ovvero la prima metà del mondo antico. E il pensiero antico non si sarebbe affatto inserito nel mondo, se il soldato romano non avesse proceduto a questo inserimento temporale, se il soldato romano non avesse proceduto a questa sorta di innesto unico al mondo». Questo atteggiamento non era così scontato. Le élite romane avrebbero potuto rifiutare di ellenizzarsi. Si può immaginare un contro modello: Roma avrebbe potuto scegliere di preservare la propria “autenticità”, considerata come segno di innocenza primitiva, e di giocarla contro la raffinatezza, nella quale si sarebbe potuto vedere un sintomo di decadenza. Come illustra il caso della Grecia conquistata che conquista il conquistatore — «Graecia capta ferum victorem cepit» — i Romani si mostrarono “victores philoxenoi”: vincitori che accolgono l’alterità. Questo atteggiamento non è umiltà subordinata ma consapevolezza matura della forza che nasce dalla dimensione plurale e dall’assimilazione intelligente.
Anche il cristianesimo si situa nel medesimo solco. Non rompe con l’ebraismo, ma la accoglie e accetta di definirsi anche a partire dalla secondarietà nei confronti del popolo dell’Alleanza. È per tale motivo che la Chiesa primitiva respinge l’eresia di Marcione, che intendeva separare le due tradizioni, riaffermando l’identità tra Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento: un gesto decisivo per l’unità culturale e spirituale dell’Europa, secondo Brague. L’Antica Alleanza non è un passato da cui la Nuova si allontanerebbe, ma piuttosto un fondamento permanente. È qualcosa di molto diverso sia dalla cancellazione sia dall’assorbimento. «L’aver elevato la secondarietà culturale a livello di rapporto con l’Assoluto è la peculiarità della religione che ha segnato decisamente l’Europa, cioè il cristianesimo», spiega Brague. Allo stesso modo, nel medioevo e nel Rinascimento la cultura cristiana non sradica completamente la cultura cosiddetta “pagana”: anzi, la reinterpreta e la integra, facendone risuonare le voci nella poesia, nelle arti, nella musica — Ovidio e Virgilio ispirano Dante; le divinità pagane rivivono nella pittura rinascimentale, e così via. Ispirato da Brague, allora, possiamo dire che la via della “secondarietà” può rappresentare una chance per l’Europa, perché ci ha insegnato a vedere noi stessi attraverso lo sguardo dell’altro e ad arricchirci senza cancellare ciò che ci ha preceduto, anzi accettando il nostro essere dopo. Da un lato c’è il rischio di un’identità chiusa in sé stessa, rigida e autosufficiente, che ha già provocato gravi conflitti in passato e può farlo ancora; dall’altro, c’è il pericolo di una soggettività priva di consistenza, che si adatta passivamente a qualunque influenza esterna solo perché proviene da ciò che è “diverso”. L’Europa, invece, si è sviluppata come identità eccentrica (che ha il proprio centro costantemente fuori), pur in mezzo a conflitti sanguinosi e a scontri tragici, che non dobbiamo occultare, ma che anzi dobbiamo ricordare come prezioso patrimonio di sangue che indica la via alternativa della convivenza fraterna. Identità eccentrica significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo a stento, in modo fragile e provvisorio.
Nella prospettiva indicata, San Benedetto può essere visto come un ponte tra cultura romana e spirito cristiano: fondatore del monachesimo occidentale, che promosse la conservazione — ad esempio nei monasteri si copiava e trasmetteva il sapere classico — e favorì un clima di preghiera, lavoro e studio, che costituì le fondamenta della civiltà che sarebbe seguita. Benedetto incarna la “secondarietà virtuosa”: accogliere e custodire, senza idolatria ma senza rinnegare. Il richiamo a San Benedetto non dovrebbe ispirare né nostalgia né chiusure identitarie, ma un rifiorire consapevole dell’Europa come processo culturale aperto. In un tempo di frammentazione e polarizzazione, la lezione della secondarietà ci suggerisce un modello alternativo: non l’assimilazione passiva, ma l’integrazione intelligente; non l’autarchia culturale, ma la ricchezza che viene dall’apertura all’altro. Non è affatto un cammino semplice, anzi. Scusate se sono brusco: le bandiere arcobaleno, pur agitate con le migliori intenzioni, possono fare poco. L’alternativa, però, è il mondo disumano del conflitto e della stagnazione culturale di ogni sistema chiuso, che prima o poi conduce alla morte. L’Europa ha nel proprio corredo genetico un’altra destinazione, la cui realizzazione però è lasciata alla nostra libertà.