Quarto giorno di esercizi spirituali con il vescovo

La meditazione di questa mattina di Monsignor Marino

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Anche questo quarto giorno di esercizi spirituali volge al termine. Da poco si è conclusa la preghiera dei Vespri, guidata dal vescovo Francesco.

Ecco la sua meditazione di questa mattina, incentrata sul versetto: «E fu trasformato davanti a loro...» (Mc 9,2b-3)

"Entriamo così nel vivo del racconto dei vangeli, partendo dal resoconto di Marco, probabilmente il più antico. Leggiamo ai vv. 9,2b-3: «Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche». Gesù si trasforma (o, come diremo subito, “viene trasformato”): il verbo metamorphóo dice un cambiamento, una trasformazione. Luca non usa questo verbo, e si sofferma sull’aspetto e sulla veste di Gesù (che diviene splendente; Lc 9,29), dettagli che sono presenti anche in Marco, il quale addirittura pone un confronto coi lavandai della terra (Mc 9,3). Matteo invece elabora l’elemento della luce, che si presta così a una lettura basata sulle fonti giudaiche, per una probabile assonanza in ebraico tra “pelle” e “luce”.

Gesù viene trasformato e in questa trasformazione si vede l’azione di Dio Padre. Infatti, anche se non tutti i commentari lo notano, il verbo che descrive quanto accade a Gesù, secondo Marco e Matteo è passivo. Anche la traduzione CEI ora ha migliorato, e mentre nella versione precedente si leggeva, per Mc 9,2 «si trasfigurò» (in Mt 17,2, invece, c’era già «fu trasfigurato»), ora sia in Mc 9,2 sia in Mt 17,2 la resa è «fu trasfigurato». La forma del verbo, più propriamente, è quella di un passivo divino, che in assenza di altro soggetto agente sottolinea che l’autore dell’azione è Dio (cf. J.P. Heil, The Transfiguration of Jesus, 155).

Il verbo metemorphóthe è significativamente differente da quello che descrive l’apparizione di Mosè e di Elia in Mc 9,4, óphthe. Il primo dice una trasformazione (dal verbo metamorphóo): Gesù viene trasformato; il secondo dice una apparizione (dal verbo orào, “vedere”), perché Elia e Mosè si mostrano (ancora un passivo, che potrebbe essere tradotto con “si sono fatti/lasciati vedere”; per la precisione il verbo è al singolare, e riferito al solo Elia: «fu visto Elia con Mosè»). Gesù quindi non appare “semplicemente”, perché è sempre stato con loro (Adela Yarbro Collins, Mark): Gesù viene trasformato.

Oltre all’azione del Padre che si compie nella trasfigurazione, sono due, però, a guardar bene, gli elementi che esprimono la sua presenza sul monte:

  1. il verbo che esprime la trasformazione della persona (del volto e delle vesti) di Gesù, di cui diremo subito;
  2. la voce per i discepoli, con le parole «Questi è il mio figlio... ascoltatelo», di cui parleremo in seguito.

Riguardo al primo punto.

La presenza di Elia permette di comprendere il senso della trasformazione di Gesù. È Elia il primo di cui si parla nel vangelo di Marco («Elia con Mosè»), ed è questa la ragione principale per cui la lettura antica che vedeva in lui l’insieme dei Profeti (Ketuvim) e in Mosè la Torà è problematica. Piuttosto, il fatto che Elia sia menzionato per primo e il suo rapimento in cielo fosse famoso nell’antichità (cf., per es. Sir 48,9), dice che «uno scopo importante del racconto della trasfigurazione è quello di anticipare la trasformazione del corpo di Gesù e la sua traslazione in cielo» (A. Yarbro Collins, Mark). Di questo parere anche altri esegeti: «Il valore della rivelazione riguarda non tanto l’immediato seguito del racconto, ma la sua conclusione; si tratta di una chiara prolessi narrativa. In particolare, stando al testo, i discepoli devono tacere non quel che hanno sentito (la voce divina e il titolo Figlio) ma quel che hanno visto (cioè Gesù in gloria). Il suggerimento è che potranno capire la visione che hanno avuto della gloria di Gesù solo dopo la sua glorificazione finale, sulla croce e mediante la risurrezione» (P. Mascilongo, Marco, 537).

Ritorneremo su questa idea, ma prima insistiamo sul fatto che la trasformazione di Gesù avvenga davanti agli occhi dei discepoli, quindi riguarda anche loro, proprio come riguarderà loro la voce dal cielo.


Per chi è la visione?

Tutto accade davanti ai discepoli, e quindi in qualche modo li riguarda, ma essi non possono partecipare pienamente all’evento: sono spettatori, e il contenuto della discussione tra Elia, Gesù e Mosè, che Luca rivela, è ascoltato da lontano, «le parole infatti sono riportate, [ma] è come se tutto fosse visto da una certa distanza» (Mascilongo, 532). I due mondi, quello divino-apocalittico (si veda la veste bianchissima di Gesù) e quello terreno, sono distinti: «i discepoli sono presi e portati ad assistere a qualcosa che non possono però possedere (né comprendere) in pieno» (ibid.). In altre parole, non si può conoscere fino in fondo il mistero, e nemmeno entrare pienamente nella sfera di Dio. Solo Gesù è «ammesso, in modo del tutto straordinario, a partecipare al mondo stesso di Dio, dove Elia e Mosè avevano la loro dimora» (ibid.). 

Dobbiamo forse dire che la trasformazione che avviene in Gesù è esclusivamente sua? Da un certo punto di vista, sì, è qualcosa che riguarda Dio. Ci si deve arrendere al fatto che ora vediamo le cose solo parzialmente, da una visuale limitata, o come in uno specchio. Da un altro punto di vista, però, quanto accade a Gesù interpella anche i discepoli, e con loro ogni credente, che infatti è chiamato a trasfigurarsi, proprio come deve fare Pietro.


Partiamo da Pietro.

Nel racconto della trasfigurazione ha un ruolo importante la voce al v. 7: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Non si tratta solo - come diremo meglio più avanti - di ascoltare la voce di Gesù, ma anche di accogliere che sia, come si diceva sopra, Figlio, e non soltanto, cioè, “Messia”. Questo elemento, come ha notato Paolo Mascilongo, emerge però nel vangelo secondo Marco, e non in quello di Matteo. Nel vangelo secondo Matteo, da Pietro Gesù infatti è proclamato non solo Messia, ma anche “Figlio di Dio”: «Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”» (Mt 16,16). La trasfigurazione, per questo aspetto, nel racconto di Matteo non aggiunge nulla, né corregge le parole di Pietro: in Matteo i titoli cristologici di Cristo e di Figlio sono già accomunati nella confessione dell’apostolo.

Ma nella prospettiva del vangelo di Marco, Gesù nelle parole di Pietro è solo - se si può dire - “Messia”, come si legge in Mc 8,29: «Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”». La voce del Tabor, invece - quella che abbiamo udito anche nella versione della Seconda lettera di Pietro - sottolinea che Gesù non è il Cristo, ma è il Figlio, proprio con il nome che già gli era stato dato nel battesimo.

Pietro, quindi, è costretto a cambiare la sua prospettiva su Gesù: «La voce [della trasfigurazione] è legata alla confessione di Pietro, tramite il passaggio di Mc 8,31 e la predizione della passione. Più che una correzione, però, si può vedere nella trasfigurazione un passo ulteriore della progressiva rivelazione dell’identità del protagonista; i due brani si integrano a vicenda. Tra i due episodi vi sono analogie» (Mascilongo, 538). Nonostante sia proprio Pietro colui che è stato chiamato Satana ed è stato rimproverato dal Maestro, «tuttavia egli è con naturalezza di nuovo invitato da Gesù a seguirlo sul monte della trasfigurazione» (539). Per Pietro-Satana, che era stato invitato ad andare “dietro” a Gesù, vi è una nuova possibilità, quella che gli permetterà ancora una volta di cambiare idea su Gesù e sul modo in cui questi è il Messia e il Figlio.

Ci possiamo chiedere ora se dobbiamo cambiare anche noi, come Pietro, la prospettiva su Gesù, sulla sua identità, sul modo in cui lo vediamo, lo conosciamo, ci rivolgiamo a lui. Ci chiediamo se anche noi dobbiamo cambiare prospettiva sulla missione del Messia, sul modo in cui vuole raggiungere la gente e far giungere il Regno.


C'è anche la nostra trasformazione: Rm 12,2 e 2Cor 3,18

Anche per Pietro vi è, dunque, una vera e propria trasformazione, ma questa è ancor più necessaria per coloro che vogliono seguire il Signore. Due testi paolini infatti permettono di vedere che quanto accade a Gesù in modo speciale, e che anche Pietro deve fare, viene richiesto anche ai cristiani. Infatti, il verbo che esprime l’essere trasformato di Gesù (metamorphóo) ricorre altre due sole volte nel Nuovo Testamento, in Rm 12,2 e in 2Cor 3,18.

In Rm 12,2, nell’ultima parte della lettera, all’interno di una lunga esortazione morale, l’Apostolo invita i discepoli a non conformarsi a questo mondo. Per far questo, è necessario un culto spirituale, che avviene implicando prima il corpo, e poi la mente. Rileggiamo la parenesi a partire dal primo versetto:

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Prima l’Apostolo, al v. 1, si concentra sul corpo, che - usando la metafora del sacrificio - deve essere offerto a Dio. Nel v. 2, invece, passa alla mente, ai pensieri. Nell’invito a trasformarli vi è ancora un passivo, con il quale si riconosce il potere o la forza che plasma tale processo, ma poiché la frase è all’imperativo («lasciatevi trasformare»), si ha a che fare anche con la responsabilità umana: il cambiamento non è solo frutto di una forza esterna, ma dipende dal singolo (J.D.G. Dunn, Romans 9-16, 712). La trasformazione qui è di carattere etico, come conseguenza della non assimilazione al mondo, ma soprattutto noetico, perché ciò che deve essere trasformato è il pensiero.

Si tratta, in altre parole, più semitiche, di cambiare il cuore. Mentre nella nostra cultura è immaginato come la sede degli affetti, nel linguaggio biblico il cuore ha un altro significato, molto simile allo “spirito” di cui si parla nella prima beatitudine dell’elenco di Matteo («beati i poveri in spirito»; Mt 5,3), ed è la sede dell’intelligenza e della volontà, cioè del pensiero. Riprova ne è la frase di Gesù quando si rivolge ad alcuni suoi avversari domandando loro «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore?» (Mt 9,4). Di cosa sia il cuore nella Bibbia, ha scritto Carlo Maria Martini: «il cuore è l’intimo dell’uomo, il centro della persona, il luogo profondo in cui la nostra persona prende coscienza di sé, riflette sugli avvenimenti, medita sul senso della realtà, assume comportamenti responsabili verso i fatti della vita e verso lo stesso mistero di Dio» (Beati voi! La promessa della felicità, 76). Anche Papa Francesco è sua questa linea, quando spiega, nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, che «nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: “L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel cuore (cf. Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge (cf. Ger 31,33)» (n. 83).

Trasformare il cuore, ovvero il modo di pensare, è una vera impresa, paragonabile a quella che vede il passaggio dall’essere in Adamo all’essere in Cristo, di cui aveva parlato Paolo in Rm 5,12- 21: quando erano in Adamo, quelli che ora sono giustificati appartenevano all’era “vecchia”, ma poiché questo tempo non è ancora passato, vi è sempre il rischio, per quelli che ora sono in Cristo, di tornare indietro e di tornare al vecchio Adamo. Per evitare questo è necessario rinnovare la mente e i pensieri, per poter discernere la volontà di Dio (cf. F.J. Matera, Romans, 287).

Il secondo testo in cui ricorre il verbo metamorphóo, “trasformarsi”, è 2Cor 3,18. Iniziando dal versetto precedente, il 17, e leggiamo:

Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. 18E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.

In questo versetto è evocata - come sul monte della trasfigurazione - la presenza di Mosè, di cui Paolo parla in tutto il capitolo terzo della lettera, e qui attraverso l’idea del suo volto illuminato dalla gloria di Dio. Qui «i cristiani sono messi a confronto con Mosè, e sia in Es 34,30.35 sia in 2Cor 3,7 si sottolinea lo splendore del suo volto, cioè il riflesso della gloria divina. Paolo vuol dire che i credenti, in modo simile, riflettono la gloria» di Dio (M.E. Thrall, Due Corinti, I, 291).

Siamo ancora di fronte ad un passivo divino: «Sia in Romani 12 [il testo appena visto sopra] sia nel nostro v. 18 la forma passiva indica che la trasformazione non è opera umana, ma dono di Dio.

Questo è dichiarato esplicitamente nelle ultime parole del versetto: secondo l’azione dello Spirito del Signore, che si potrebbe anche tradurre: “Secondo l’azione del Signore [che opera come] Spirito”» (B. Corsani, La seconda lettera ai Corinzi, 86-87).

La trasformazione del cristiano avviene, scrive Paolo, contemplando la gloria di Dio, come aveva fatto Mosè, ma come in uno specchio (il verbo katoptrìzo, cf. il sostantivo “specchio”, kàtoptoron). Si tratta, anzitutto, di una trasformazione non mentale, o dei pensieri, come quella di cui parla l’Apostolo in Rm 12, ma che deve avere un qualche elemento visibile, come la luce che si vedeva dal volto di Mosè. Non è uno stato, ma un processo, indicato dall’espressione «di gloria in gloria», cioè da passaggio da gloria ad un’altra. Tale trasformazione, anche qui, ha luogo non solo per il proprio impegno, ma grazie allo Spirito.

A questo punto possiamo ora fermarci e riflettere su come sia possibile la trasformazione della missione della Chiesa di cui parla papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium, e da quanto abbiamo appena visto, come anche da quanto scrive il papa nel capitolo quinto dell’esortazione, dal titolo «Evangelizzatori con Spirito», è evidente che è necessario lasciarsi guidare dallo Spirito del Signore.

Sembra emergere anche che l’evangelizzazione e la trasformazione della Chiesa possano aver luogo solo se cambia - si trasforma - la nostra prospettiva. In particolare, proprio sulla base di Rm 12,2, sarà necessario trasformare i nostri pensieri, per poter compiere quel discernimento necessario nel compiere ogni scelta.

Proseguiremo il cammino chiedendoci ora come siano arrivati Elia e Mosè sul monte Tabor, fino ad incontrare Gesù, e come anche per loro la missione sia, ad un certo punto, radicalmente cambiata.

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